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"Il corpo gettato"
Francisco Mele in "Progetto uomo" 9 gennaio 2009


Nell’ambito del nucleo famigliare si innesca una guerra e l’individuo non ha più un luogo per sentirsi al sicuro.

Il corpo gettato. Il corpo smesso, spazzatura dell’anno concluso.
Alla vigilia dell’Anno Nuovo, una ragazza di diciannove anni, anoressica da alcuni anni, brucia il suo diario, in cui aveva raccontato giorno per giorno la sua vita, e si lancia nel vuoto dal quinto piano di un palazzo della periferia di Roma in cui abitava con i genitori.
I giornali riportano la notizia dando risalto al periodo di festa in cui, sottolineano, la ragazza si è lanciata nel vuoto spaventata dall'eccesso di cibo.
Ma questa ragazza, più che costituire un segnale di sofferenza per l’abbondanza del cibo e l’allegria della festa che non ha la forza di condividere, per noi assurge invece a drammatico simbolo di un netto rifiuto della società del consumo.
È lei stessa, con la sua malattia, il simbolo di tale società basata sulla logica del “tutto o niente”, e soprattutto sulla logica della competizione esacerbata che ha il suo culmine nella “guerra di tutti contro tutti”.
Con l'anoressia entriamo nel campo della clinica dell'insostanza. Lanciandosi nel vuoto, la ragazza denuncia la mancanza di una sostanza su cui appoggiare la propria esistenza. Lo stesso suo corpo via via affilato dall’anoressia, appare sempre più fragile, trasparente, privo di una qualche forza attraverso cui farlo consistere. È un oggetto di cui liberarsi perchè non adatto alla vita. Sdoppiandosi alla maniera di chi si vede vivere nei giochi di internet, si manipola fino a rendersi evanescente, e poi si butta via.
La sostanza di cui la ragazza era priva è la “Parola”, elemento fondamentale – secondo la Psicanalisi - che articola gli eventi del vissuti, organizzandoli e dando loro un senso complessivo. Si tratta di quella Parola non articolazione fonetica, ma espressione profonda dell’essere, che consente di vivere in rapporto con gli altri lasciando una traccia di sé nel contesto sociale attraverso il proprio agire.
Agire, dire, patire, sono – secondo Paul Ricoeur – una triade inscindibile che permette di reagire alla sofferenza parlando di questa sofferenza ad un altro significativo. Nel caso della ragazza suicida, i tre aspetti della stessa realtà esistenziale paiono essersi disarticolati, slegati, non più in sintonia l’un l’altro. La ragazza soffre, ma non reagisce; soffre ma non comunica questa sua sofferenza parlandone e chiedendo aiuto. È una sofferenza muta che sfocia in una azione muta e senza spiegazioni.
La ragazza ha rifiutato ogni genere di dialogo, percorrendo da sola e soltanto in compagnia del suo diario il cammino che va via via portandola alla decisione finale. E prima di realizzare il suo gesto estremo, si porta con sé quel minimo accenno di dialogo con un’amica immaginaria altra se stessa, che ha sviluppato nel suo diario: lo brucia, lo trascina volatilizzato con lei che si getta in volo. Ogni traccia di sé viene cancellata attraverso l’onnipotenza di un pensiero megalomane e distruttivo.
Di fronte a gesti come questo, gli interrogativi che di solito vengono espressi sono: “Perché l’ha fatto?” e “Con chi ce l’aveva?”. In ogni atto suicida esiste una componente omicida. Chi si uccide lascia gli altri senza Parola, li colpevolizza per non aver impedito quel gesto, crea una punizione che risulta come una vendetta di cui non si ha la chiave di interpretazione. Anche se genitori o innamorati o chi aveva un qualche rapporto con la persona suicida possono aver avuto responsabilità nei suoi confronti per aver creato, volontariamente o no, sofferenza, disagio, dolori, la reazione derivatane è sproporzionata nella maggior parte dei casi, e infligge una punizione all’avversario che non può da lui essere mai più riparata.
L’anoressica si lascia morire ogni giorno; su di lei genitori, medici, amici, psicoterapeuti sono privi di ogni potere di azione, in quanto non riescono a creare un rapporto per cui la ragazza possa sentirsene minacciata, aiutata, ricercata come referente di un dialogo.
Ai bambini una volta, se erano disobbedienti, il padre o la madre dicevano: “Se non cambi, se non ti penti, se non chiedi scusa ecc., vai a letto senza cena”. Questa punizione non ha qui nessun valore perché non ha nessun effetto su una ragazza anoressica, che anzi, finge spesso di mangiare per vomitare poi il cibo, eludendo perfino, con la sua finzione, la funzione genitoriale.
Pur non apparendo tale – perché sembra che essa rinunci a qualsiasi desiderio di competizione e a qualunque desiderio di cibo – la ragazza anoressica in genere sta sempre a misurare il suo peso e a controllare quello che si permette di mantenere dentro di sé. La sua competizione riguarda l’eccesso di calcolo attraverso cui lei misura i minimi grammi che ingerisce. Questa competizione può essere realizzata secondo la teoria della guerra all’estremo, preconizzata dal generale Clausewitz, ripresa da Karl Schmitt e rielaborata da René Girard. Questi tre autori ci permettono di collegare la guerra fra i popoli e la guerra a cui assistiamo all’interno delle famiglie. Dal nemico del popolo si passa al nemico dentro la famiglia. Come mai un figlio – o una figlia – diventa nemico dei genitori? L’anoressica tiene in ostaggio la famiglia, la mantiene sotto assedio con una strategia che porta il conflitto ad un punto di non ritorno; “incarna” il kamikaze: la ragazza anoressica si uccide per uccidere l’altro.
Per quale motivo questo “altro” diventa un oggetto da eliminare? Il nemico di famiglia è colui che diventa ostacolo alla felicità immaginata dal soggetto che si sente impedito da questo “altro”. Quante volte delle madri hanno confessato che avrebbero preferito vedere morto un figlio piuttosto che in preda alla droga o morta una figlia anoressica piuttosto che soffrirne ogni giorno il graduale spegnimento! Ma anche i figli che si trovano sotto il dominio della droga o sono condizionati dall’ossessione dell’anoressia – e per analogia, quanti risultano schiavi di altre dipendenze, come il gioco, lo shopping compulsivo ecc. – danno sovente spazio alla fantasia di diventare liberi dai propri genitori, magari immaginandone una morte imminente, pensando in tal modo di poter disporre di tutto quanto loro apparteneva, per realizzarsi secondo un effimero piano di vita senza divieti.
L’anoressica che realizza il suo piano delittuoso verso se stessa lascia in chi le sopravvive nella famiglia un complesso insieme di sensazioni: rimorso, senso di colpa, liberazione, confuso sentimento di perdita e così via. pur non confessato, appare in trasparenza che un non dichiarato desiderio di morte nei confronti della ragazza può esserci stato in qualcuno della famiglia che ha sofferto per anni quotidianamente quel lento, inesorabile stillicidio di morte. Meglio allora, anche se mai emerso verbalmente, anche se non formulato con un pensiero al di fuori di sé, che la piccola aguzzina raggiunga il suo obbiettivo, e se ne vada una buona volta, se questo è davvero il suo scopo, ma che tutti gli altri della famiglia debbano parteciparvi attraverso una morte collettiva, no. Emergono in questa situazione due diverse interpretazioni del desiderio: quello secondo Lacan in cui il soggetto realizza il desiderio dell’altro; quello secondo Girard secondo cui attraverso la rivalità mimetica soggetto e oggetto diventano modelli e ostacoli l’uno dell’altro, fino a scatenare la violenza che può realizzarsi come omicidio/suicidio. In questo caso la ragazza realizza un doppio desiderio, quello del familiare e quello proprio: l'uccisione di sé e l'uccisione dell'altro significativo.
Il nemico di famiglia diventa ancora più minaccioso del nemico esterno. Anche nell’ambito privato del nucleo familiare si attiva la guerra, e l’individuo non ha più luogo in cui sentirsi al sicuro, anzi la minaccia si fa più pressante e ineludibile. Seguendo il pensiero di Jacques Derrida, ci sono dei soggetti che hanno bisogno del nemico per non diventare folli, come testimonia Nietzsche. Il nemico offre a un soggetto una ragione di esistere e un'organizzazione del pensiero. La perdita del nemico per alcune persone, può provocare una catastrofe a livello psicologico. La morte del nemico implica un lungo processo di lutto difficile da elaborare come l'elaborazione della perdita di una persona cara.
Il processo che si scatena nella violenza familiare porta ad una indifferenziazione tale che nel momento più alto di tale violenza è difficile distinguere chi è il nemico dell’altro, in quanto ognuno si fa nemico a ciascuno degli altri, a sua volta nemico.
Si tratta di un processo di mimesi contagiosa, in quanto la violenza vista nell’altro opera nel soggetto che la vede un aumento della sua violenza, e così progressivamente, come in una spirale, la violenza cresce via via.
Appare una analogia di tali fatti nell’ambito familiare con la situazione economica internazionale, segnata dall’andamento delle Borse di tutto il mondo: alla caduta di una corrisponde la caduta di altre, mentre altre ancora si alzano trascinando con sé, senza apparenti motivazioni concrete, altre Borse ecc. In questi ultimi mesi sono aumentati i delitti in famiglia, gli omicidi/suicidi, come se si fosse attivato l'isomorfismo o il meccanismo della risonanza fra la violenza a livello macro e quella a livello micro: nella parola economia troviamo la parola casa o i beni di famiglia e il concetto di norma.
In Wikipedia : Per economia - dal greco οἴκος (oikos), "casa" inteso anche come "beni di famiglia", e νόμος (nomos), "norma" o "legge"
Quando la norma salta, saltano i meccanismi che mantengono sotto controllo la tensione suicida/omicida. La violenza a livello familiare è una chiara spia della crisi a livello sociale.
Certo collegabile alla situazione economica soggetta a tali sbalzi è la situazione bellica in alcuni paesi. La provocazione di un paese nei confronti di un altro – certo con ragioni economicamente e socialmente valide – comporta un’immediata reazione sproporzionata in violenza rispetto alla provocazione iniziale; più volte i due contendenti si colpiscono, aumentando via via il grado di violenza.

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